RECENSIONE DI PASQUINO CRUPI

La poesia di Idotta

Saggista e scrittore, Francesco Idotta ora s’imbarca nell’avventura della poesia, che, pur intendendo parlare urbi et orbi, riserva le sue grazie a pochissime persone al mondo. C’è un Vangelo anche per chi vuole entrare nel regno laico dei Poeti:” Molti i chiamati, pochi gli eletti”. E non è a dire che un avviso di garanzia non sia stato pronunciato da tempo immemorabile: “ Poeti si nasce”. Ma è chiaro che è più facile nascere  ricchi o poveri, sani o malati, che poeti. Pochi, pochissimi.

Francesco Idotta sapeva e sa tutto questo. Non è un vanesio, che voglia arricchire l’occhiello della sua giacca con altre medaglie, dopo quelle meritatissime di saggista agile e di narratore avveduto. È una persona seria nella vita e nella vita degli studi. Ed è ben consapevole che nel campo della saggistica e della prosa, anche quando non si è grandi, non necessariamente si debba essere piccini. Ma nel campo della poesia o si è poeti o non lo si è. Poteva contentarsi del cammino fin qui conquistato come narratore e come saggista, e le luci della ribalta a lui dovute. Ha voluto rischiare tutto. La sfida lanciata è quella dell’uscita della parola dal saggio e dal racconto verso la poesia. Come vedrete, la sfida è stata vinta con questa raccolta, la sua prima raccolta, elettivamente intitolata Abadir. Di che cosa si tratti ce lo dice lo stesso Francesco Idotta: “Abadir” Con questo nome è ricordata la pietra che Rea, moglie di Cronos, appena partorito Giove, fasciò come se fosse stato un bambino e presentò al marito che l’ingoiò senza accorgersi dell’ingenua sostituzione, unicamente preoccupato dal timore che i figli che gli nascevano dalla moglie potessero, un giorno, spodestarlo com’egli aveva già fatto col proprio padre Urano”.

Debbo confessare che non è di facile comprensione il rapporto tra questo titolo Abadir  e il contenuto delle poesie presenti nella raccolta. Ma un rapporto c’è. E forse il giovane poeta vuol dire e dirci che l’apparenza ci governa ed è l’estrema calunnia del mondo peggiore, che a questo modo si difende e resiste ad ogni assalto contro il suo incredibile e terribile dominio. Se questo è, l’originalità di Francesco Idotta è al di fuori di ogni legittimo dubbio, ed è fuori da ogni legittimo dubbio che la sua poesia è poesia sociale. Ma poesia sociale di qualità speciale. Poiché diversamente dalla poesia sociale, così come l’abbiamo conosciuta in testi canonici, questa di Francesco Idotta scioglie la concretezza storica, che richiama la denuncia e l’invettiva, in una lontananza levigata, che dice l’intramontata destinazione dell’uomo alla tirannide del mondo peggiore.

Si tocca dappertutto questa condizione, che non risparmia né uomini né donne né bambini, e non risparmia neppure l’amore, che, senza, però, strazi romantici, neppure esso è se non eco di attimi sfuggiti. Raccolta dolorosa, di un dolore inesausto, senza quiete e senza riposo, questa di Francesco Idotta. Sconsolata, come sconsolata è la grande poesia italiana, da pochi attinta. Poesia – verrebbe voglia di dire – antiumanistica, e anche questo è una novità: l’uomo non è che un’ombra e, senz’altro, non è padrone del proprio destino. Questo è. Ma bisogna aggiungere che il giovane poeta non cerca compromessi con la realtà che appare, che è apparenza. Non ci possono essere patti tra ciò che è e ciò che appare. Come quella del quasi esclusivo Giacomo Leopardi, la parola di Francesco Idotta è parola crudele, parola intera, parola non contaminata. Insomma, parola sacra, grande sacerdotessa dell’augusto vero. Autonoma. Non si fa infettare dal negativo della Storia, che la vorrebbe dolente e afflitta. E, invece, è musicale. Della temperatura dei musicali versi di Eugenio Montale, Umberto Saba, Sandro Penna, Maria Luisa Spaziani. Abbiamo un poeta. Dopo Lorenzo Calogero, Franco Costabile, Emilio Argiroffi la Calabria era in attesa. Abbiamo un poeta. Poeta adesso c’è.

Pasquino Crupi