RECENSIONE DI MIMMA GIORDANO

Sono particolarmente contenta che ad aprire le danze di questo “Aprile in rima” sia la poesia di Francesco Idotta. E non solo per l’amicizia profonda che ci lega, per una sottile forma di intesa “intellettuale” che prescinde dalla consuetudine e dalla quotidianità. Io ammiro, senza piaggeria, la sua straordinaria ecletticità, la sua passione per la conoscenza -senza limiti- che ne fa un intellettuale integrale, fatto rarissimo in un periodo in cui s’invoca la parcellizzazione del sapere e la specializzazione esasperata. Trovo felice la formula scelta dai tre partner dell’iniziativa: il connubio tra poesia e musica è quanto di più naturale possa esistere, perché la poesia è prima di tutto canto, è suggestione di ritmo e suoni, è intuizione del Mistero prima ancora di farsi strumento per veicolare un significato. Se questo è vero in generale, lo è tanto più nell’esperienza di Francesco, e questo almeno per due ordini di motivi: la musica è parte fondamentale della sua formazione, forse la prima forma di arte con cui è venuto in contatto poco più che bambino, in maniera forse non disciplinata ma viscerale; la seconda ragione, elemento non secondario, è la ricerca della metrica che caratterizza la sua produzione, la disciplina della composizione, anche se nel tempo e con la maturità espressiva è emersa una maggiore libertà, che supera e sublima gli stilemi classici, e li piega al flusso della voce. D’altronde sono numerosi, lungo tutta la silloge, i riferimenti al mondo della musica. “Passando sopra il rigo a cinque piani/ con variazioni e inflessioni in scala/ articolata in toni in la minore,/ permane la distesa… ed è angoscia./ Comprendo che la scala dei minori/ non è vicina al timbro della voce/ di quella donna stesa sopra il letto,/ vicaria dell’attesa solitaria” (X Abadir, pag 39). “Vibrante come tasto sotto il dito/ la penna suda in mano allo scrittore./(…)/ Si innalza il canto della prateria…” (pag 71 Scirocco). La musica è fonte di ispirazione e orizzonte di riferimento, costantemente presente.

 

“Se si potesse esprimere a parole

Ciò che sentiamo sulla trasparenza,

leggendo un libro o consultando il cielo…

Se la Via Lattea desse dei consigli

Come li diede ai Greci ed ai Persiani,

se nella notte il cielo fosse un faro

ad indicare la strada ai condannati,

non ci sarebbe isola a placare

le tempestose ire di Nettuno.

(…)

Il mondo sembra spingere a vagare

Verso la distruzione delle assenze

E quando è sera nasce la domanda:

sarà sbagliato l’uomo che ama il verso

o sveglio è lui come pochi altri?”

 

Prendo in prestito i versi di Francesco, quest’ultimo interrogativo – in particolare – struggente ma estremamente diretto e non retorico, per iniziare il mio viaggio intorno e spero dentro la sua poesia. È un interrogativo che non trova risposta, che resta sospeso come una sentinella a vigilare sul senso ultimo del poetare. Ho letto e riletto la silloge, mi verrebbe da dire le sillogi – tre tante quante sono le sezioni che compongono “Abadir” e in cui il canto si modula in modo differente, toccando corde e registri apparentemente lontani – ho letto in cerca della chiave di volta, del grimaldello capace di dischiudermi il significato, di rendermi più sicuro il percorso. Ma, come accade sempre di fronte alla poesia vera, i versi mi hanno travolta con la loro ricchezza e mi hanno piacevolmente disorientato. Ho immaginato la silloge come un universo popolato da infinite galassie che ruotano attorno ad un nucleo vitale sempre nuovo. Scaturigine di questo complesso sistema è l’incontro tra una sensibilità non comune e la realtà, indagata, interrogata, amata e sofferta. “Su questa riva intenerita e bianca,/ resa fumosa dal disinteresse,/ a sospirare attese sta il poeta/ e su di lui il cielo piange sale” (p.39 Abadir). Ed è un confronto duro, che a tratti produce scoramento, quello con la realtà (come emerge dall’aggettivazione “ogni vita è solitaria”, “il mondo è vano”, “il canto è nero”, “il sogno è compromesso”) mentre il poeta non abbassa lo sguardo di fronte all’assurdità del tutto, al progressivo rastremarsi del senso e dell’umanità dell’uomo.

Poesia pedagogica e segnatamente sociale (ma anche civile per il rilievo che ha l’educazione) quella della raccolta “Bambino”, un dialogo inesausto giocato sul rapporto io/tu, adulto/bambino, passato/presente, per denunciare la miopia del modello dis-educativo odierno, sbilanciato sul terreno del materialismo, in cui affettività, ascolto e fantasia latitano (“Quando la pioggia/batte contro i vetri,/il tuo faccino/ resta imbalsamato/ ed i tuoi occhi aspettano/ un sorriso,/ che lo trasporti il tempo della sera,/quando papà e mamma/ stanchi e cupi/ ti mettono nel letto/ per restare/ un po’ da soli col televisore” XXIII pag 22). Sono versi limpidi e taglienti come schegge di vetro, in cui campeggiano le sinestesie e gli oggetti traducono i sentimenti degli esseri umani. L’innocenza, la freschezza e la fantasia dell’infanzia, che fanno dei bambini filosofi e poeti naturali, sembrano scomparire in una società ridotta ad una unica dimensione: quella quantitativa. La raccolta che va sotto il titolo del “Bambino” si contraddistingue per un versificare scarno, per un lessico essenziale che a tratti si tinge di sarcasmo. Un sottile filo rosso lega la prima sezione alla raccolta che dà il titolo all’intera silloge “Abadir”. Al centro della “narrazione” la maternità raccontata in chiave violenta, e la femminilità intesa come principio generatore violato. L’imbarbarimento dell’umanità, il richiamo costante alla Guerra come divinità del male, tracciano la geografia dell’assenza, del vuoto di speranza. Eppure non è tutto perso, la sirena simbolo di pace, di una ricostituita armonia con la Natura, attende l’”uomo nuovo”, capace di volgere lo sguardo al sole, come la “Clizia dei prodigi”, la ninfa trasformata in girasole. “Il vero è muto” e come tale incomunicabile, se non attraverso le emozioni.

Arriva come i pensieri insidiosi che alimenta il vento di “scirocco” l’ultima parte, quella più intima e introspettiva. Sono stata una lettrice imperfetta, perché ho tradito il patto silenzioso che l’autore stringe con il lettore e viceversa, e impudicamente ho cercato e trovato tra i versi l’uomo Francesco. Non parlo di autobiografismo tout court, ma di un diario di emozioni che nasce dal ricordo delle persone care, dalle delusioni e dalla ritrovata e recuperata forza nelle proprie convinzioni. Nella terra di mezzo della delusione e della sofferenza nasce il fiore della speranza: “Ora che l’uomo è fatto ora che sogna/ la penna è più matura e riflessiva,/ ora che sono oltre l’arroganza/ di quella giovanile esuberanza/ non voglio ritornare a percepire/ il mondo come un’isola dannata” (pag 60) e ancora “La notte poteva essere giunta/ veloce a trafiggere il tempo/ arrestando ogni filo di luce/ e serbando le ali all’incontro./ Non venne la morte…/ ma vita”. È una chiara scelta di campo, l’uomo come una nave superstite ai marosi guarda alle “ignote rotte del domani”.

Ed è il sogno, la capacità di far rinascere lo spirito bambino, la meraviglia per la conoscenza, l’antidoto personale all’annichilimento. In Francesco Idotta più che una fuga dalla realtà, il sogno è una “categoria del pensiero”, è uno strumento della volontà capace di convertire il dolore in canto. La sensazione raccolta mi ha fatto tornare indietro, alle pagine pietrose di “Abadir”, per recuperare i versi più autenticamente autobiografici di Francesco, laddove rivela il DNA che sta alla base di tutta la sua azione artistico-culturale: “Profonda era la sete e non di acqua,/ ma di saper di più, di sconfinare/ su quelle cime dove sta Mistero…” (pag 38). Un’affermazione che fa il paio con la vitalistica statuizione: “Il mondo è qui e voglio farlo mio!”, che fotografa l’autore bambino. Anche quando descrive l’abbrutimento del reale, l’autore non se ne chiama aristocraticamente fuori, non addita l’errore ma com-patisce (condivide il dolore dell’umanità). L’amore profondo per la vita in Francesco è sopra tutto desiderio inesausto di conoscenza ed è invocazione al rispetto per la natura, all’accoglienza e all’amore tra gli uomini.

Con affetto,

Mimma Giordano