LA LINGUA DELL’ALTRO

la lingua dell'altro

 

Il presente lavoro è il frutto di un percorso linguistico-filosofico tra le intricate vie dell’Italiano, intrapreso nel tentativo di rispondere ad alcuni interrogativi:

L’Italiano è la lingua madre per tutti gli italiani o per alcuni è ancora una lingua matrigna?

Quand’è che il cambiamento di una lingua nel tempo (quel mutamento naturale e ineluttabile) è da considerarsi un impoverimento? bisogna rassegnarsi alle brutture, oppure lottare per affermare il buon gusto?

Quali difficoltà di apprendimento possono incontrare gli studenti che hanno il dialetto come lingua madre e che ruolo ha l’insegnante di italiano nell’integrazione dei bambini stranieri?

La lingua che parliamo può determinare la nostra visione del mondo?

A queste domande si cercherà di rispondere muovendosi sia su un piano pratico, didattico, sia teoretico, ermeneutico: l’uomo abita in un contesto pregno di suoni, i quali vanno trasmessi ai posteri, impedendo che si interrompa il loro fluire, e vanno anche interpretati, alla luce della propria contemporaneità. Nella parola, storicamente determinata, ogni individuo riconosce se stesso, perché essa è la sua dimora, il luogo dell’indugio e dell’attesa, in cui si attarda per aspettare l’avvento dell’ospite, con il quale aprire un dialogo, capace di dare accesso al regno della differenza. In questo attendere, si pensa nella propria lingua e si cerca di tradurre la parola dell’altro, di interpretarla, in un viaggio migratorio rivolto a traslocare il verbo da un spazio originario verso un luogo adottivo. Per appagare l’innato desiderio di “riconoscimento” dell’essere umano; per placare la nostalgia di un tempo mitico, in cui tutti gli uomini parlavano la stessa lingua e ascoltavano il medesimo silenzio.

Il presente lavoro è il naturale proseguimento della riflessione intrapresa nel mio libro precedente, Rotte Mediterranee, in cui mi sono soffermato, tra i vari temi, sia sul problema dell’accoglienza dell’Altro sia sul ruolo pedagogico dei paesi mediterranei nella presa di coscienza dell’impossibilità di sottrarsi all’accoglienza dell’ad-veniente. Per ospitare bisogna intendere la lingua dell’altro e per apprenderla occorre esercitarsi all’ascolto e al silenzio; serve l’amore per l’altro, si deve a tal punto amarlo da adottare anche la sua madre lingua, lasciando che essa invada il nostro cervello, uscendo dall’ottica della traduzione ed entrando in quella della condivisione, per evitare inutili sensi di inferiorità[1].

Nel precedente lavoro l’aspetto linguistico era stato affrontato solo da un punto di vista poetico e teoretico: era necessario procedere anche su un livello meramente didattico. Vivendo in un’area dell’Italia in cui il dialetto è la lingua madre, mi sono chiesto se questo non influisse in qualche modo sull’apprendimento dell’italiano e delle altre materie, giacché lo studente dialettofono deve operare continui processi di traduzione, e quindi di interpretazione, durante i primi anni – e non solo – di apprendimento, i quali possono generare indisponibilità ad apprendere in una lingua che non fa altro che denigrare quella materna. Se è vero, come è vero, che la conoscenza è il principio della trasformazione, occorre conoscere bene i ragazzi, prima di sedersi in cattedra, cercando di fornire loro ogni possibile agevolazione, gli strumenti e le opportunità, affinché siano allievi desiderosi di apprendere e non soggetti frustrati dalla incomunicabilità.

Il presente libro è il frutto della rielaborazione di una serie di lezioni tenute in una Scuola Primaria a dei colleghi, con i quali si sono creati una serie di laboratori didattici, con l’intento di individuare le problematiche più frequenti riscontrate negli alunni durante i processi di apprendimento. Lo studio qui condotto, muovendosi su basi certe, fornite da studiosi di fama internazionale e da teorie consolidate e sperimentate, avanza una serie di ipotesi pedagogiche, anch’esse sperimentate dal sottoscritto in circa dieci anni di insegnamento, le quali hanno fornito buoni risultati, innalzando notevolmente la percentuale di successi scolastici, in tutte le discipline, dall’italiano alla matematica. Per comprendere i processi logici della matematica e della poesia, ogni studente deve intendere le indicazioni fornite dai docenti; se ciò non avviene sarà più facile fallire.

Secondo gli studi più recenti della psicologia cognitiva, linguaggio e pensiero sono due sfere che si determinano reciprocamente. Lera Boroditsky[2] afferma che le lingue che parliamo influenzano la nostra percezione del mondo. Le lingue plasmano il pensiero.

I ricercatori hanno analizzato come il linguaggio modella anche le dimensioni più fondamentali dell’esperienza: spazio, tempo, causalità e rapporto con gli altri.[3]

La studiosa sostiene che la lingua genera i processi mentali, quindi cambiando il nostro modo di parlare mutano i nostri schemi psichici.

Secondo le ricerche, chi è bilingue cambia il modo di vedere il mondo in base alla lingua che parla. Due ricerche pubblicate nel 2010 hanno mostrato che addirittura qualcosa di fondamentale come il grado di simpatia o di antipatia verso una persona dipende dalla lingua in cui ci è chiesto il parere.[4]

Questi studi sostengono e confermano quanto ho avuto modo di sperimentare sul campo lavorando con alunni dialettofoni. La visione del mondo cambia col suono e con le strutture mentali che esso determina. Il dialetto, in questa parte di Calabria, non è una lingua articolata e predisposta alla sublimazione del pensiero: è una lingua pratica, ricca di metafore, capaci di nascondere il reale fino a renderlo inaccessibile, anche al pensiero stesso. Passare all’italiano comporta un mutamento di rotta: quando abbiamo sostituito il latino col volgare si è fatto il salto dal Medioevo al Rinascimento. I popoli hanno creato un mondo dando vita una nuova lingua.

Il percorso ermeneutico, che ogni giorno tracciamo, semplicemente nominando il mondo che ci circonda, è un cammino di scoperta. Mutare lingua ci apre una nuova strada; inventare la parola, ogni giorno, ci dispone al futuro privi di paure e pregiudizî. Molte delle lingue che oggi parliamo fra alcuni decenni saranno scomparse, tra queste la maggior parte dei dialetti. La certezza che ciò sia inevitabile ci deriva dalla constatazione che molte delle lingue degli antenati sono ormai estinte, basti pensare all’etrusco, di cui ancora non si possiede, è il caso di dirlo, la chiave di lettura. Anche i dialetti spariranno, per tale ragione, occorre che il cambio di linguaggio non divenga necessariamente un impoverimento. I ragazzi che ancora oggi hanno il dialetto come lingua madre tendono ad apprendere un italiano misero. Far conoscere la ricchezza della lingua di Dante è un compito estremamente complesso e delicato, se tale processo non avviene nel modo corretto, si rischia di perdere l’identità e la consapevolezza di essere parte di un paese, l’Italia, che può “dire” ancora molto, nei contesti internazionali, su temi come la bellezza e le politiche di pace e di accoglienza, proprio perché vi si parla una lingua che è armonica, sa rispettare le pause e quindi riesce a dare il giusto spazio alle lingue degli altri.

I., Catona, 29 maggio 2011

 

[1] “Il dover ricorrere alla traduzione è anzi una specie di ammissione di inferiorità da parte degli interlocutori”. Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode, tr. it. Giovanni Vattimo, Verità e metodo, (Bompiani, Milano, 2004) pag. 442.

[2] Professore associato di psicologia cognitiva alla Stanford University e direttore di “Frontiers in Cultural Psychology”.

[3] Linguaggio e pensiero, in Le Scienze, (ed. it. di Scientific American) N°512, Aprile 2011, pagg. 63- 65.

[4] Ibidem.